Il riscatto decorativo e la riflessione, in particolare dal corso del Novecento a tutt’oggi, nell’epoca delle megalopoli hanno segnato con intensità, inquietandoli, i percorsi dell’arte, della teoria dell’arte e dell’estetica, posto nuovi interrogativi, cercato altrettante risposte.
Dal lontano concetto di bellezza razionale, che è stato di Van der Velde e della critica di Boch e Krakauer, si è approdati a formulare l’idea dell’ornamento di massa, aprendo a un itinerario decisivo per i rapporti dell’arte con la manipolazione dell’oggetto e l’ornamento cercato, e quel che più conta, al porsi stesso dell’arte nella società di massa.
Più di recente, nel mutamento dei concetti di “essenza” e di “bello”, è anche con l’arte del riciclo nelle sue manifestazioni più alte che si arriva a recuperare paradossalmente alcuni tratti come l’unicità, l’originalità, l’autenticità consumati dalla società e dalla cultura occidentali nel loro lavoro di riproducibilità dell’opera d’arte, dettando le specifiche determinazioni quali si configura oggi nell’epoca della megalopoli.
Si prova dunque ad analizzare le ragioni teoriche e critiche dello sfaldarsi del sistema dell’arte della modernità, della sua corrosione e collasso, e a comprendere la storia dell’arte, la teoria e la pratica critica, nonché la stessa forma di museo, che hanno saputo rimodellare il profilo, i contorni e i nessi dei loro saperi, dal momento che il post-moderno ha segnato – indicando il suo compimento - una frattura e una discontinuità con il moderno e con l’umano e nessun stile unitario.
Non per questo si può declinare di nuovo la fine dell’arte, anche se forgiata dalla spazzatura!
L’arte è oggi nella sua vitalità modello di decostruzione e costruzione di altri linguaggi, dall’antropologia del cyberspazio dell’architettura dei musei di terza generazione, o della stessa critica scesa dal trono dell’alta teoria, per essere sommo momento di analisi di compiti, in un rimescolamento di funzioni e di ruoli degli addetti ai lavori (mercanti, collezionisti, curatori).
Proiettato su questo scenario il sistema dell’arte intende porre l’accento sull’erosione delle metropoli e sulle megalopoli, spazi deterritorializzati, disomogenei e selvaggi della post-modernità, in cui l’artista si trova a praticare una sorta di nomadismo interiore, nella ricerca continua di un senso da vivere e comunicare.
Studiosi come Jameson, nel distinguere il post-moderno come stile, dalla post-modernità come periodo storico, ha precisato che “globalizzazione” e “post-modernità” sono due appellativi diversi per descrivere lo stesso fenomeno storico e lo stesso fenomeno economico, evidenziando che “uno sottolinea la sua espansione economica, l’approssimarsi a un mercato mondiale definitivo; l’altro mette a fuoco le strutture e le forme culturali nelle quali è giunta ad esprimersi questa mutazione, prodotta dalla terza fase del capitalismo”.
Se Jameson legando post-modernità e globalizzazione conferma il ruolo strategico della megalopoli, delle sue contraddizioni e delle sue possibilità, è Bauman a ribadire i concetti di “tempo puntinizzato”, dove si pensa solo al presente, perché il futuro non esiste, o tutt’al più può essere pensato come un presente che sta arrivando, e a definire la mercificazione di ogni cosa, persino dei sentimenti e di noi stessi. Ma è soprattutto la sua analisi sociopolitica a sostenere che le megalopoli sono “discariche” prodotte dalla modernità che ha vinto imponendo il suo modello di “libero scambio, libera economia, libero consumo” e generato una popolazione di “underclass” (fuori luogo, esclusi, incapaci).
Oggi le città del mondo sono delle immense discariche, perché (per dirla con Fanon) “ai dannati della terra” si aggiungono anche i rifiuti dei consumi di massa. Le discariche, tuttavia, oltre a luoghi di battaglia sono anche potenziali laboratori di idee e di esperienze, e tutto ciò che di obsoleto e abbandonato ci circonda è un dono prezioso che ci viene restituito dal mare, dalla terra, o resta davvero un grande, inarrestabile rigurgito.
La forma d’intreccio della postmodernità con la globalizzazione, letto nelle diverse prospettive di Jameson e Bauman (ma anche di Derrida) impone una domanda sul possibile destino dell’arte e del sistema dell’arte. Se è necessario distinguere la postmodernità (o globalizzazione) dal postmoderno come stile, forse è altrettanto necessario costruire uno stile postmoderno, una molteplicità di livelli fuori dal campo di uno stratificato sistema dell’arte irriducibile a uno stile unitario e unico, per dar voce ad artisti come Maria Capellini, condannati diversamente a popolare l’underclass, e congedare la riflessione di pensanti che in tempi diversi e nella logica progressiva della modernità hanno tracciato una linea continua scandita dalla sequenza luttuosa avanguardia-postmoderno-morte dell’arte (Trimarco).
Le opere di Maria Capellini si collocano ben più al di là di un semplice ed occasionale assemblaggio di oggetti: non sono semplici tracce lasciate dal mare delle Cinque Terre sulla sabbia o sulle rocce, o lamiere corrose e derelitte, spogliate di ogni funzione originaria.
Diventa quasi d’obbligo ricitare il primo artefatto artistico della “Ruota di bicicletta” di Duchamp, gli ornamenti stampigliati sui collages di Picasso, o la magia degli oggetti senza senso traslati dalla produzione del mercato dai surrealisti, per trovare il loro punto d’origine e al tempo stesso il suo superamento.
“Ritagli di cielo, ritagli di mare”, mai titolo poteva mostrarsi più appropriato per comunicare la possibile nuova vita di un materiale rivisitato in senso artistico, animato dell’amore, della memoria, del potere visionario e poetico del mondo interiore dell’artista (cfr: La ruggine del cercare, Nell’onda lunga del polimero).
A specchio dei conflitti e dei quesiti lancinanti posti dalla modernità, l’incontro fortuito del “discaricart” con oggetti incompossibili colti in nuove posture o assemblamenti pensati naturali, rinviano allo sguardo che interroga un disordine sistematicamente organizzato, il cui risultato trova validità in qualcosa di non scontato a priori, ma singolarmente cercato entro un contesto consapevolmente problematico: anche in una tematica, come il meraviglioso, ispirato alla diversa natura demiurgica di un oggetto riciclato, scelta come proprio campo di ricerca in qualsiasi materia in cui sia stato selezionato il campo del proprio rapporto con il mondo (cfr: A ruota libera, Capovolta all’indietro).
Nelle sculture e nelle tavole di Maria Capellini c’è molto di più e di profondo. Accanto alla narrazione affidata al simbolismo dei “cicli” vige il principio della dualità che si alterna sistematicamente e si compensa, alla perenne ricerca di oggetti compossibili che non trasmuta mai in stasi, ma è energia e slancio verso il conseguimento di nuovi equilibri. A stagliarsi sono i due elementi, il maschile e il femminile, il sole e la luna, quest’ultima presente spesso nella sua fase nascente (cfr: Buongiorno Luna, buonanotte Sole). E compaiono le costellazioni e le stagioni e i mesi: aprile, mese magico del Toro, Orione, che apre verso la Porta del cielo, o Spicca e il ciclo della fertilità. Ma anche stelle splendenti come Sirio o il Carro dell’Orsa Minore e la Stella Polare, guida di naviganti, di infelici o di innocenti: finestra aperta sulla tematica sociale delle grandi immigrazioni, affidata al valore simbolico di uno sguardo sperduto e lontano (Forse un posto ci sarà), di una valigia, unico elemento certo di un viaggio verso l’ignoto (Partire), o a una “Sirena del Mediterraneo”, che con un colpo di coda spinge fuori dalle onde un bambino da salvare.
Su tutto sembra dominare Cassiopea, incarnazione della dea dell’effimero.
Questo e tant’altro sullo sfondo di carte nautiche e dilatazioni incise o dipinte a mano.
Al di là del singolo racconto, nel connubio perfetto tra pensiero e intuizione squisitamente femminile, domina il principio di rinascita del seme-oggetto custodito nel ventre della terra, diversamente restituito dal mare, o incastonato nel profondo del cielo. Vive cioè nel mito greco, talora di Dioniso, più sovente in quello della Grande Madre, testimonianza della fecondità e massima divinità, in grado di generare la vita da se stessa (Sizigia).
Nelle sue composizioni Maria Capellini rivisita il mito della Dea Madre, cui è associato il ciclo lunare, e per analogia i cicli rigenerativi delle fasi lunari, per i quali la morte è momento necessario alla rinascita della vita.
Un oggetto sepolto e ripescato tra le onde o le sabbie è un essere messo nel ventre della Grande Madre, dalla quale un giorno è destinato a rinascere, come avviene per il ciclo vegetale. Così nel ciclo del cielo ripropone la venerazione della dea nella sua forma trinitaria di fanciulla, di donna gravida e di anziana, tre figure femminili destinate a identificarsi con le tre fasi lunari mensili, prima e autentica trinità nella storia religiosa dell’uomo, perché l’unica che riunisce in una sola persona divina tre diverse manifestazioni divine: la femmina impubere (Luna crescente), la femmina fertile (Luna piena), la femmina infeconda (Luna calante).
Tutta l’opera di Maria Capellini guarda al culto primitivo della Grande Madre; la donna, immagine vivente della Dea, simile alla Luna, cresceva e decresceva, dall’adolescenza alla senilità, senza risoluzione di continuità e la sua perpetuità non era in discussione, perché la fanciulla-luna-crescente diveniva madre-luna-piena, e infine vecchia-luna-calante, per sparire dal cielo per qualche giorno e ritornare sotto forma di nuova fanciulla.
Proiettato nella rivisitazione del mito, l’oggetto-seme della terra non è più un rigurgito. Il valore demiurgico, il simbolismo di cui è caricato vivono grazie alla grande capacità d’astrazione e di comunicazione legate ad una manualità artigianale di alto spessore artistico.
Nel fare come processo dell’arte (da “Art” che nell’accezione più comune significa “arto - mano”), artista è colei (o colui) che lavora con le mani. Il senso cercato si cala nel fare come processo che non può prescindere dalla ragione o da un pensiero riflesso.
Maria Capellini non solo racconta, sa soprattutto dotare di senso una materia apparentemente esanime, e denunciare con voce stentorea i soprusi e gli obbrobri di una visione metafisica corrente, momento esemplare dell’oggettivazione artistica della crisi del senso, che è in realtà dissolvimento del senso e area di conflitti tra diversi orizzonti di senso (come nella denuncia di Dis-equilibrio).
All’”essenzialismo” o “discaricart”, movimento del quale ha palesemente dichiarato la sua appartenenza, l’artista ha saputo dare molto di più di un piacevole assemblaggio di piccole cose rigettate e inutili. E non si è nemmeno smarrita nella meravigliosa isola di Lipsi, dove la mente si perde nella fascinosa e rapinosa avventura di effimere emozioni. Il mondo sommerso e onirico dal quale sa alfine attingere per dar vita alle sue creature rivela la sua capacità di rifugiarsi in un gioco di solitudine e di confronto costante con se stessa, nella ripetitività quasi ossessiva, ma mai monotona che manda i segnali di un inconscio nascosto e rivelato ogni volta come la prima volta (cfr: Ordine crescente, Tursiops).
La luce di sogni surreali emerge a rappresentare una nuova realtà. La discarica, come recita il suo manifesto, “insegna a non dimenticare le piccole cose che ieri abbiamo amato e oggi abbiamo perduto o rigettato”, perché nell’osservazione e nella ricerca di un microcosmo materico il cercatore si ritrova e riscopre una realtà che lo conduce a frequentare quella parte di sé che soltanto ieri sonnecchiava dimenticata.
Non è semplice incasellare il lavoro di Maria tra i tanti artisti dell’arte ecosostenibile; non c’è in esso alcunché di scontato, né di occasionale. E non è neppure un semplice ossimoro, anche se animato da momenti onirici e contemporanee grida di denuncia; è piuttosto l’esito di una lettura socio-esistenziale che rende feconda l’unità di mondi apparentemente incompossibili e sa proporre una nuova iconografia dov’è il ruolo nel quale la materia è trasformata ad assumere una valenza di riscatto su quanto appare inerte.